Mutando un orientamento ultraventennale, con la pronuncia n. 11504 del 10 maggio 2017 (relativa al divorzio tra Vittorio Grilli, ex ministro dell’Economia nel Governo Monti, e l’imprenditrice Lisa Lowenstein), la Suprema Corte ha sancito nuovi parametri in materia di assegno divorzile, stabilendo che esso non può essere riconosciuto a chi è indipendente economicamente (o è effettivamente in grado di esserlo) e che, per la sua determinazione, non rileva il tenore di vita goduto nel corso del matrimonio.
Nel caso in esame, il Tribunale di Milano aveva dichiarato lo scioglimento del matrimonio contratto tra due coniugi respingendo la domanda di assegno divorzile proposta dalla moglie. Anche la Corte d’appello di Milano, a cui la soccombente aveva presentato gravame, aveva ritenuto non dovuto l’assegno dalla medesima preteso per mancanza di prove in ordine all’inadeguatezza dei propri redditi a conservare il tenore di vita beneficiato in costanza di matrimonio.
Avverso questa sentenza, l’ex moglie aveva proposto ricorso in Cassazione denunciando, tra le altre doglianze, la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898/1970, per avere, i giudici di merito, negatole il diritto all’assegno sulla base della circostanza che l’ex marito non avesse mezzi adeguati per conservare l’alto tenore di vita matrimoniale.
Partendo dal disposto normativo di cui all’art. 5, comma 6, della L. n. 898/1970, secondo cui “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”, la Cassazione ha esaminato la fattispecie in questione ritenendo, come vedremo, del tutto infondato il ricorso proposto.
Il presupposto da cui la Corte ha fatto discendere il proprio ragionamento è che l’estinzione del rapporto matrimoniale di cui al menzionato art. 5, comma 6, ha rilievo sia sul piano dello status personale dei coniugi – i quali devono perciò considerarsi da quel momento “persone singole” – sia su quello attinente ai loro rapporti economico-patrimoniali.
Ciò posto, l’eventuale diritto all’assegno divorzile può essere riconosciuto dal giudice in mancanza di mezzi adeguati dell’ex coniuge o, comunque, in caso d’impossibilità dello stesso di procurarseli per ragioni oggettive, solamente sulla base di un giudizio distinto in due fasi: la prima, tesa a verificare la sussistenza del diritto (fase dell’an debeatur) e, la seconda, atta a determinare quantitativamente l’assegno (fase del quantum debeatur).
Tanto premesso, decisiva è, a parere della Cassazione, l’interpretazione del sintagma normativo “mezzi adeguati” e della disposizione “impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per ragioni oggettive”, in riferimento ai quali grava sul coniuge richiedente l’onere di dimostrarne la sussistenza.
Sul punto, la Corte ha richiamato due importanti precedenti – Cass. Civ. S.U. nn. 11490 e 11492 del 29.11.1990 – con cui è stato riconosciuto che il parametro di riferimento a cui rapportare l’adeguatezza-inadeguatezza dei mezzi del richiedente è rappresentato dal “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio” (Cass. Civ., S.U., n. 11490/1990; in tal senso anche Cass. Civ. n. 3341/1978, n. 4955 del 1989, n. 11686/2013 e n. 11870/2015).
Ebbene, con la sentenza in commento, la Cassazione, a distanza di quasi ventisette anni, ha completamente ribaltato tale orientamento non ritenendolo più attuale.
Invero, la Suprema Corte ha espressamente stabilito che il Giudice del divorzio, a cui viene richiesta la liquidazione dell’assegno divorzile, ha il dovere di verificare nella fase dell’an debeatur – informata al principio dell’“auto responsabilità” e dell’”indipendenza economica” di ciascuno degli ex coniugi, il cui oggetto è costituito esclusivamente dall’accertamento volto al riconoscimento, o meno, del diritto all’assegno in parola – se la domanda dell’ex coniuge richiedente possa soddisfare le relative condizioni di legge rappresentate dalla mancanza di “mezzi adeguati” o, comunque, dall’impossibilità “di procurarseli per ragioni oggettive”.
Tale requisito dell’indipendenza o dell’autosufficienza economica deve essere desunto da “indici” che la Corte ha dichiarato essere: “1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza (“dimora abituale”: art. 43 c.c., comma 2) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”, di cui il richiedente, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio – fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’altro ex coniuge – deve adeguatamente offrire “pertinenti allegazioni, deduzioni e prove”.
Una volta terminata la prima fase, si passerà a quella attinente al quantum debeatur – “informata al principio della “solidarietà economica” dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economicamente più debole (artt. 2 e 23 Cost.), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto” – per la quale il giudice deve tener conto di tutti gli elementi indicati dalla norma (“(….) condizioni dei coniugi, (….) ragioni della decisione, (….) contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, (….) reddito di entrambi (….)“), e, quindi, valutare “tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio“, al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio.
Anche tale fase, deve essere affrontata tenuto conto delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova (art. 2697 c.c.).
In buona sostanza, con la pronuncia in esame, la Cassazione ha sentito l’esigenza di superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come “sistemazione definitiva”, essendo ormai diffusa nel costume sociale un’idea del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile (matrimonio che, si rammenta, oggi è possibile “sciogliere”, previo accordo, con una semplice dichiarazione delle parti all’ufficiale dello stato civile, a norma dell’art. 12 del D.L. n. 132/2014, convertito in legge, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, art. 1, comma 1).
E’ quindi pienamente coerente con questo approdo sociale e legislativo l’orientamento della Suprema Corte in commento, secondo cui la formazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge beneficiario dell’assegno divorzile è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di un’eventuale cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà post-matrimoniale da parte dell’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (cfr. le sentenze nn. 6855 del 2015 e 2466 del 2016).
Ciò in quanto un’interpretazione delle norme sull’assegno divorzile, che produca l’effetto di procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, può tradursi in un ostacolo alla costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare, in violazione di un diritto fondamentale dell’individuo che è ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Cedu (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 9).
Si deve, quindi, ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale ad oltranza.
L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile – come detto – non è il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi, ma il raggiungimento dell’indipendenza economica, intesa come la funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno divorzile.